La Val Grande

Ciao a tutti, pubblico un articolo scritto da un amico ormai diverso tempo fa.

L’amico è stato anche guida in una escursione in quel magico posto che è la Val Grande.

Un posto che consiglio a tutti di visitar almeno una volta nella vita, un posto dove io  ho lasciato il cuore, e spero ques’tanno di riuscire a tornarci.

 

 

IN VAL GRANDE

Da “La Rivista della Montagna” n° 278


La Val Grande è un posto speciale. Montagne ripide, selvagge, poco accoglienti. Boschi all’infinito e poi acque trasparenti che tagliano nella roccia scura incisioni profonde. Nessuno che ci vive in Val Grande.

In realtà sarebbe meglio dire nessuno della nostra specie, perché di camosci, aquile, vipere e trote, faggi, abeti e castagni ce n’è, eccome. La vita qui non manca certo e la wilderness, la natura selvaggia, domina tra questi monti impervi.

A due passi dal Lago Maggiore il Parco Nazionale della Val Grande protegge infatti quella che è considerata l’area selvaggia più vasta d’Italia. Ma qui per secoli la gente ha vissuto e lavorato, modificando anche pesantemente il territorio. Si tratta quindi di una wilderness “di ritorno”, di una ricolonizzazione della natura dopo che l’uomo se n’è andato.

In Val Grande vivevano alpigiani e boscaioli, centinaia di persone, ma non era una vita facile. Per questi posti calza a pennello l’ironico detto ossolano “Alp gras, via la fioca ven fòra i sas…” (alpeggio grasso, via la neve vengono fuori i sassi), eppure tanta era la necessità che anche il più umile pezzo di terra veniva sfruttato. Lungo il corso del torrente si vedono ancora i resti dei binari che portavano la legna a valle, e sulle creste i tralicci delle teleferiche usate per portarla “fuori”. A Pogallo addirittura c’era la luce elettrica, il dottore, i carabinieri e la scuola.

Poi venne la guerra, la seconda, l’otto settembre e il rastrellamento nazifascista del giugno ’44. Più di duecento baite bruciate, i ponti e i paesi distrutti, un disastro. Ma per la Val Grande il colpo più duro fu l’industrializzazione degli anni ’60. Le fabbriche offrivano otto ore di lavoro per cinque giorni la settimana, stipendio fisso, ferie e malattia. Ma chi l’aveva mai vista una cosa così? Potevi vivere in paese, comprarti la seicento, trovar la fidanzata. Perché le ragazze quelli che continuavano la vita all’alpe non li volevano.

Così in tanti lasciarono la valle e non ci tornarono più. Prima i ragazzi, infine i vecchi, testardi. L’estate del ’69 fu l’ultima. A fine stagione Paolo Primatesta e sua moglie “scaricarono” l’Alpe Serena. Portarono giù la roba e le bestie, un rito a cui il Paulin aveva partecipato per settanta volte, anno dopo anno, lui che in Val Grande era arrivato in un gerlo a cinque giorni d’età, nell’ultima estate del secolo prima. Soltanto che questa volta non sarebbero più tornati.

La Val Grande restava deserta. Tra queste montagne difficili moriva un patrimonio culturale antico e tornava a dominare ciò che c’era già prima: la foresta. La natura cancella lentamente tutto e torna sovrana. Restano solo i ricordi nella memoria dei vecchi e i segni, soprattutto nella pietra, per chi li sa leggere. I muri a secco dei tanti alpeggi in rovina, i blocchi di pietra ollare scavati per ottenere rudimentali pentole, le fornaci dove si produceva la calce decomponendo la roccia calcarea. E ancora il misterioso masso dell’Alpe Prà, inciso da vaschette e canaletti, forse un altare pagano rivolto al sorgere del sole.

Dalle montagne della Val Grande, a Candoglia, ancora si cava il marmo per il Duomo di Milano, un tempo trasportato via acqua fino alla “fabbrica” della cattedrale. L’acqua infatti, al contrario della roccia, non è mai stata ferma. Ha continuato a scorrere, dalle cime più alte fin giù al lago, incidendo la pietra, disegnando la valle. Ma in fondo è anche rimasta la stessa, pura e trasparente come prima dell’uomo, a regalare riflessi blu intenso o verde brillante.

Anche l’acqua è stata usata dall’uomo. Per trasportare il legname quando ancora non c’erano le teleferiche, o per regalare la luce elettrica a Verbania addirittura prima che arrivasse a Roma. L’acqua è sicuramente uno degli spettacoli più belli per chi esplora queste montagne: ovunque sono pozze, lanche, cascate e splendidi laghetti.

C’è una strada, stretta e a picco sul torrente, che porta fino a Cicogna, la piccola capitale della valle. Oggi una manciata di anime, un tempo oltre settecento abitanti. Il parroco lo hanno avuto fino al ’70 e l’ultimo è stato don Antonio Fiora, quello che girava in braghe corte per gli alpeggi e, sembra, al mercato di Intra vendeva “uova di Cicogna” giocando sull’equivoco. Ma che ha anche risollevato il paese, quasi completamente distrutto dalla guerra.

In Val Grande comunque è meglio andare a piedi, perché solo così si può incontrare la natura selvaggia di queste montagne e allo stesso tempo scoprire i segni di chi ci ha vissuto. Oggi, grazie ai bivacchi realizzati dal Parco recuperando gli alpeggi, si possono affrontare lunghe traversate senza il peso della tenda. Ma anche senza troppe comodità. Si dorme su tavolati di legno e si cammina lungo itinerari dove non ci sono segnali a ogni pietra. In Val Grande può capitare di perdere il sentiero. Molto più spesso capita di ritrovare sé stessi.


Paolo Campagnoli (Info: www.valsesiaincoming.it)

 

Val Grande

(c) Paolo Campagnoli